Citazione della settimana...


"LA MORTE È LA GRAZIA DELLE GRAZIE E IL CORONAMENTO DELLA
VITA CRISTIANA. ESSA NON È UNA FINE, COME TROPPI ANCORA PENSANO, MA L'INIZIO DI
UNA BELLA RINASCITA".

- Marthe Robin -

"NON ABBIATE PAURA DELLA GIOIA".

- Papa Francesco -



SIGNORE GESU' SONO QUI DAVANTI A TE

Signore Gesù, sono davanti a te con tutte le mie miserie. So che non mi respingerai perché tu mi ami così come sono. Mi dolgo e mi pento con tutto il cuore dei miei peccati: ti prego perdonami! Nel tuo Nome perdono tutte le persone per quanto hanno fatto contro di me. Rinuncio a Satana, a tutti gli spiriti maligni ed alle loro opere e seduzioni. Ti dono tutto il mio essere, o Signore Gesù, ora e sempre. Ti invito nella mia vita, o Gesù; ti accetto come Signore, Dio e Salvatore. Guariscimi, trasformami, rafforza il mio corpo, la mia anima ed il mio spirito. Vieni Signore Gesù, immergimi nel tuo Preziosissimo Sangue e riempimi del tuo Santo Spirito. Ti Amo, Signore Gesù. Ti lodo, Gesù. Ti ringrazio. Ti seguirò per tutti i giorni della mia vita. Aiutami a non voltarmi mai indietro. A non desiderare nient'altro che te. Fammi sentire il tepore del tuo amore e la potenza del tuo Santo Corpo. Rendimi cosciente della grandezza del tuo donarti a me, misera creatura. Illumina la mia mente e il mio cuore. Irrompi con la tua luce l'intensità delle tenebre che offuscano la mia vita. Rendimi la gioia di essere salvato affinché possa vivere con te per sempre in paradiso.
Maria, mia dolce Madre, Regina della Pace, Angeli e Santi, aiutatemi, ve ne prego. Amen, Alleluia, Amen.
- Fr. Peter Mary Rookey -


IL SILENZIO

Il silenzio è mitezza. Quando non rispondi alle offese, quando non reclami i tuoi diritti, quando lasci a Dio la difesa del tuo onore, il silenzio è mitezza.
Il silenzio è misericordia. Quando non riveli le colpe dei fratelli, quando perdoni senza indagare nel passato, quando non condanni, ma intercedi nell'intimo, il silenzio è misericordia.
Il silenzio è pazienza. Quando soffri senza lamentarti, quando non cerchi consolazione dagli uomini, quando non intervieni, ma attendi che il seme germogli lentamente, il silenzio è pazienza.

Il silenzio è umiltà. Quando taci per lasciare
emergere i fratelli, quando celi nel riserbo i doni di Dio, quando lasci che il tuo agire sia interpretato male, quando lasci agli altri la gloria dell'impresa, il silenzio è umiltà.
Il silenzio è fede. Quando taci, perchè è LUI che agisce, quando rinunci ai suoni, alle voci del mondo per stare alla Sua presenza, quando non cerchi comprensione, perchè ti basta essere conosciuto da Lui, il silenzio è fede.


giovedì 31 gennaio 2013

Le mode oscene e i peccati della carne - Racconto da un esorcismo

Di Don Leonardo M. Pompei
 
Su questa materia il demonio disse in un esorcismo attendibile (molto diffuso e reperibile anche sul web) di padre Heinrich Kreuzer del 21 Febbraio 1984 le seguenti parole: “...Quante donne oggi, per la superbia della carne, mostrano in maniera provocante il loro corpo! Senza pudore! Senza disagio! Con la più grande naturalezza, fingendo di non rendersi conto che stanno provocando scandalo a tante persone e favorendo così la propria e l’altrui rovina eterna. Quanti e quanti uomini, infatti, e quanti e quanti bambini sono portati a guardarle con malizia! Guai a chi pecca e fa peccare in questo modo! Sono costretto a dire che una donna che non è vestita correttamente talvolta pecca senza esserne pienamente consapevole, ma non per questo è senza colpa, perché genitori, sacerdoti ed educatori almeno qualche volta le hanno parlato del pudore, e se anche non fosse stata educata in questo senso glielo grida la sua coscienza che un certo abbigliamento diventa provocazione e tentazione per chi la vede così poco vestita. E così, quando si ostina a ignorare questo, induce molti uomini e molti bambini e giovani a pensieri peccaminosi, li rende facilmente vittime della passione della carne e li porta a peccare gravemente. L’Alta (Parla della Madonna) a Fatima ha raccomandato: ‘Vestitevi decentemente e impa­rate da me’. Ma ora basta, non voglio parlare!”. Dinanzi all’incalzare dell’esorcista, che gli ordina in nome di Dio di continuare a parlare dicendo solo la verità, il demonio (che dice di essere “Belzebub”) prosegue: “Davanti a Dio l’umiltà è il più bell’ornamento. Questo l’ha detto l’Alta. Lei disse anche: ‘Molti vanno all'inferno per il peccato di impurità’. La donna pecca non solo quando si scopre in modo sconveniente, ma fin da quando nella sua mente si propone di far questo. Il volersi affermare non tanto con la bellezza dell’anima [cioè con le virtù], ma col fascino del corpo è già una colpa. E quanto è diffusa questa colpa! E quanto è sottovalutata! Quante donne diventano delle tentatrici per l’uomo, come lo fu Eva! Io, Belzebub, sono stato costretto a dirvi questo, ma non voglio più parlare!”. Nuovamente l’esorcista gli ordina perentoriamente di continuare, onde prosegue: “Quante donne di oggi creano danni irreparabili nelle anime di molte altre persone, per cui, se pentendosi in tempo riusciranno a salvarsi, in purgatorio dovranno pagare amaramente questo loro peccato: bruceranno in tutte quelle parti del loro corpo che hanno spudoratamente scoperto. I loro torbidi pensieri di oggi e il loro insano e ostinato desiderio di apparire o di provocare daranno vita per loro a un’atroce tortura. Se poi non si convertiranno, bruceranno per sempre all’inferno. La loro pelle ... [Grida]. Io non voglio parlare!”. L’esorcista gli impone di concludere il pensiero. Sentiamo: “La loro pelle si staccherà a brandelli e cadrà. Allora saranno davvero carne nuda, carne sanguinante, se non si saranno pentite, amaramente pentite fin che erano in tempo, se non avranno espiato per quanto hanno rovinato in altre anime. Questo ve l’ho dovuto dire, ma ora non voglio più parlare”.

Parole forti? Certo. Meno forti di quello che sarà il giudizio di Dio per chi pecca e fa peccare in questo modo. I santi hanno usato un linguaggio non meno severo contro la smania di ostentare e denudare il proprio corpo per trasformarlo in oggetto di passione e di libidine. È ora che anche tra di noi, fedeli e seguaci di Gesù e dell’Immacolata, qualcuno cominci ad alzare la voce.

domenica 20 gennaio 2013

Dalle Omelie di Sant'Agostino: "Ama e fa ciò che vuoi".


«Ama e fa’ ciò che vuoi»: è una delle frasi più famose e più citate di Agostino. Pochi però sanno in quale contesto essa si trovi e che cosa significasse nelle intenzioni dell’autore.
Il contesto è l’interpretazione della Prima lettera di Giovanni, alla quale il vescovo d’Ippona dedicò un ciclo di dieci omelie, le prime otto predicate dal 14 aprile (domenica di Pasqua) al 21 aprile (ottava di Pasqua) del 407. La frase in questione si trova nell’omelia 7, predicata sabato 20 aprile. Agostino sta commentando i versetti 4-12 del capitolo 4 dell’epistola giovannea, un passaggio cruciale del testo sacro, lì dove Giovanni afferma solennemente che «Dio è amore» e che «in questo si è manifestato l’amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo unigenito Figlio […] come vittima di espiazione per i nostri peccati» (1Gv 4, 8-9). Nel consegnare suo Figlio al sacrificio della croce, Dio ha dunque rivelato ciò che Egli è, ossia Amore. Anche Giuda, potrebbe obiettare qualcuno, ha consegnato Gesù alla morte, ma il suo fu tradimento; forse che anche Dio ha tradito suo Figlio? No, risponde Agostino, perché il medesimo atto cambia di valore a seconda dell’intenzione con cui viene compiuto: nel caso di Dio, si trattava di amore, nel caso di Giuda di infedeltà. Così, anche noi dobbiamo anzitutto porre alla base del nostro agire l’amore per il prossimo; in questo modo, ad esempio, sgridare potrà essere un atto d’amore (come succede tra padre e figlio), mentre al contrario essere gentili senza amore potrebbe essere solo un comportamento interessato (come tra mercante e cliente). Ecco che allora l’invito: «Ama e fa’ ciò che vuoi» non è un’esaltazione del sentimento, del capriccio, dell'egoismo teso a privare l'amore della resposnsablità. Amare è attenzione all'altro ed a quanto Dio in esso ha riversato. La sacrilità della vita, nella dimensione della carità, necesstià di sacrificio libero e disinteressato, solo da qui in poi è possibile amare liberamente perchè si è sciolti da qualunque legame con l'interesse egoistico del possesso. Il massimo e centralissimo esempio? Il kerigma: Gesù Cristo morto (sulla Croce in sostituzione nostra) e risorto per noi!  Dunque, la frase del Santo Vescovo è un’esortazione alla responsabilità per il bene del prossimo nella glorificazione del Dio Trino ed Uno. Riporto il link integrale della catechesi agostiniana: http://www.santagostino.info/pdf/ama_e_fa_cio_che_vuoi.pdf.

giovedì 17 gennaio 2013

Vita e preghiera a Sant'Antonio Abate

 
Dopo la pace costantiniana, il martirio cruento dei cristiani diventò molto raro; a questa forma eroica di santità dei primi tempi del cristianesimo, subentrò un cammino di santità professato da una nuovo stuolo di cristiani, desiderosi di una spiritualità più profonda, di appartenere solo a Dio e quindi di vivere soli nella contemplazione dei misteri divini.
Questo fu il grande movimento spirituale del ‘Monachesimo’, che avrà nei secoli successivi varie trasformazioni e modi di essere; dall’eremitaggio alla vita comunitaria; espandendosi dall’Oriente all’Occidente e diventando la grande pianta spirituale su cui si è poggiata la Chiesa, insieme alla gerarchia apostolica.
Anche se probabilmente fu il primo a instaurare una vita eremitica e ascetica nel deserto della Tebaide, s. Antonio ne fu senz’altro l’esempio più stimolante e noto, ed è considerato il caposcuola del Monachesimo.
Conoscitore profondo dell’esperienza spirituale di Antonio, fu s. Atanasio (295-373) vescovo di Alessandria, suo amico e discepolo, il quale ne scrisse una bella e veritiera biografia.
Antonio nacque verso il 250 da una agiata famiglia di agricoltori nel villaggio di Coma, attuale Qumans in Egitto e verso i 18-20 anni rimase orfano dei genitori, con un ricco patrimonio da amministrare e con una sorella minore da educare.
Attratto dall’ammaestramento evangelico “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi ciò che hai, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo, poi vieni e seguimi”, e sull’esempio di alcuni anacoreti che vivevano nei dintorni dei villaggi egiziani, in preghiera, povertà e castità, Antonio volle scegliere questa strada e venduto i suoi beni, affidata la sorella a una comunità di vergini, si dedicò alla vita ascetica davanti alla sua casa e poi al di fuori del paese.
Alla ricerca di uno stile di vita penitente e senza distrazione, chiese a Dio di essere illuminato e così vide poco lontano un anacoreta come lui, che seduto lavorava intrecciando una corda, poi smetteva si alzava e pregava, poi di nuovo a lavorare e di nuovo a pregare; era un angelo di Dio che gli indicava la strada del lavoro e della preghiera, che sarà due secoli dopo, la regola benedettina “Ora et labora” del Monachesimo Occidentale.
Parte del suo lavoro gli serviva per procurarsi il cibo e parte la distribuiva ai poveri; dice s. Atanasio, che pregava continuamente ed era così attento alla lettura delle Scritture, che ricordava tutto e la sua memoria sostituiva i libri.
Dopo qualche anno di questa edificante esperienza, in piena gioventù cominciarono per lui durissime prove, pensieri osceni lo tormentavano, dubbi l’assalivano sulla opportunità di una vita così solitaria, non seguita dalla massa degli uomini né dagli ecclesiastici, l’istinto della carne e l’attaccamento ai beni materiali che erano sopiti in quegli anni, ritornavano prepotenti e incontrollabili.
Chiese aiuto ad altri asceti, che gli dissero di non spaventarsi, ma di andare avanti con fiducia, perché Dio era con lui e gli consigliarono di sbarazzarsi di tutti i legami e cose, per ritirarsi in un luogo più solitario.
Così ricoperto appena da un rude panno, si rifugiò in un’antica tomba scavata nella roccia di una collina, intorno al villaggio di Coma, un amico gli portava ogni tanto un po’ di pane, per il resto si doveva arrangiare con frutti di bosco e le erbe dei campi.
In questo luogo, alle prime tentazioni subentrarono terrificanti visioni e frastuoni, in più attraversò un periodo di terribile oscurità spirituale, ma tutto superò perseverando nella fede in Dio, compiendo giorno per giorno la sua volontà, come gli avevano insegnato i suoi maestri.
Quando alla fine Cristo gli si rivelò illuminandolo, egli chiese: “Dov’eri? Perché non sei apparso fin da principio per far cessare le mie sofferenze?”. Si sentì rispondere: “Antonio, io ero qui con te e assistevo alla tua lotta…”.
Scoperto dai suoi concittadini, che come tutti i cristiani di quei tempi, affluivano presso gli anacoreti per riceverne consiglio, aiuto, consolazione, ma nello stesso tempo turbavano la loro solitudine e raccoglimento, allora Antonio si spostò più lontano verso il Mar Rosso.
Sulle montagne del Pispir c’era una fortezza abbandonata, infestata dai serpenti, ma con una fonte sorgiva e qui nel 285 Antonio si trasferì, rimanendovi per 20 anni.
Due volte all’anno gli calavano dall’alto del pane; seguì in questa nuova solitudine l’esempio di Gesù, che guidato dallo Spirito si ritirò nel deserto “per essere tentato dal demonio”; era comune convinzione che solo la solitudine, permettesse alla creatura umana di purificarsi da tutte le cattive tendenze, personificate nella figura biblica del demonio e diventare così uomo nuovo.
Certamente solo persone psichicamente sane potevano affrontare un’ascesi così austera come quella degli anacoreti; non tutti ci riuscivano e alcuni finivano per andare fuori di testa, scambiando le proprie fantasie per illuminazioni divine o tentazioni diaboliche.
Non era il caso di Antonio; attaccato dal demonio che lo svegliava con le tentazioni nel cuore della notte, dandogli consigli apparentemente di maggiore perfezione, spingendolo verso l’esaurimento fisico e psichico e per disgustarlo della vita solitaria; invece resistendo e acquistando con l’aiuto di Dio, il “discernimento degli spiriti”, Antonio poté riconoscere le apparizioni false, compreso quelle che simulavano le presenze angeliche.
E venne il tempo in cui molte persone che volevano dedicarsi alla vita eremitica, giunsero al fortino abbattendolo e Antonio uscì come ispirato dal soffio divino; cominciò a consolare gli afflitti ottenendo dal Signore guarigioni, liberando gli ossessi e istruendo i nuovi discepoli.
Si formarono due gruppi di monaci che diedero origine a due monasteri, uno ad oriente del Nilo e l’altro sulla riva sinistra del fiume, ogni monaco aveva la sua grotta solitaria, ubbidendo però ad un fratello più esperto nella vita spirituale; a tutti Antonio dava i suoi consigli nel cammino verso la perfezione dello spirito uniti a Dio.
Nel 307 venne a visitarlo il monaco eremita s. Ilarione (292-372), che fondò a Gaza in Palestina il primo monastero, scambiandosi le loro esperienze sulla vita eremitica; nel 311 Antonio non esitò a lasciare il suo eremo e si recò ad Alessandria, dove imperversava la persecuzione contro i cristiani, ordinata dall’imperatore romano Massimino Daia († 313), per sostenere e confortare i fratelli nella fede e desideroso lui stesso del martirio.
Forse perché incuteva rispetto e timore reverenziale anche ai Romani, fu risparmiato; le sue uscite dall’eremo si moltiplicarono per servire la comunità cristiana, sostenne con la sua influente presenza l’amico vescovo di Alessandria, s. Atanasio che combatteva l’eresia ariana, scrisse in sua difesa anche una lettera a Costantino imperatore, che non fu tenuta di gran conto, ma fu importante fra il popolo cristiano.
Tornata la pace nell’impero e per sfuggire ai troppi curiosi che si recavano nel fortilizio del Mar Rosso, decise di ritirarsi in un luogo più isolato e andò nel deserto della Tebaide, dove prese a coltivare un piccolo orto per il suo sostentamento e di quanti, discepoli e visitatori, si recavano da lui per aiuto e ricerca di perfezione.
Visse nella Tebaide fino al termine della sua lunghissima vita, poté seppellire il corpo dell’eremita s. Paolo di Tebe con l’aiuto di un leone, per questo è considerato patrono dei seppellitori.
Negli ultimi anni accolse presso di sé due monaci che l’accudirono nell’estrema vecchiaia; morì a 106 anni, il 17 gennaio del 356 e fu seppellito in un luogo segreto.
La sua presenza aveva attirato anche qui tante persone desiderose di vita spirituale e tanti scelsero di essere monaci; così fra i monti della Tebaide (Alto Egitto) sorsero monasteri e il deserto si popolò di monaci; primi di quella moltitudine di uomini consacrati che in Oriente e in Occidente, intrapresero quel cammino da lui iniziato, ampliandolo e adattandolo alle esigenze dei tempi.
I suoi discepoli tramandarono alla Chiesa la sua sapienza, raccolta in 120 detti e in 20 lettere; nella Lettera 8, s. Antonio scrisse ai suoi “Chiedete con cuore sincero quel grande Spirito di fuoco che io stesso ho ricevuto, ed esso vi sarà dato”.
Nel 561 fu scoperto il suo sepolcro e le reliquie cominciarono un lungo viaggiare nel tempo, da Alessandria a Costantinopoli, fino in Francia nell’XI secolo a Motte-Saint-Didier, dove fu costruita una chiesa in suo onore.
In questa chiesa a venerarne le reliquie, affluivano folle di malati, soprattutto di ergotismo canceroso, causato dall’avvelenamento di un fungo presente nella segala, usata per fare il pane.
Il morbo era conosciuto sin dall’antichità come ‘ignis sacer’ per il bruciore che provocava; per ospitare tutti gli ammalati che giungevano, si costruì un ospedale e una Confraternita di religiosi, l’antico Ordine ospedaliero degli ‘Antoniani’; il villaggio prese il nome di Saint-Antoine di Viennois.
Il papa accordò loro il privilegio di allevare maiali per uso proprio e a spese della comunità, per cui i porcellini potevano circolare liberamente fra cortili e strade, nessuno li toccava se portavano una campanella di riconoscimento.
Il loro grasso veniva usato per curare l’ergotismo, che venne chiamato “il male di s. Antonio” e poi “fuoco di s. Antonio” (herpes zoster); per questo nella religiosità popolare, il maiale cominciò ad essere associato al grande eremita egiziano, poi fu considerato il santo patrono dei maiali e per estensione di tutti gli animali domestici e della stalla.
Nella sua iconografia compare oltre al maialino con la campanella, anche il bastone degli eremiti a forma di T, la ‘tau’ ultima lettera dell’alfabeto ebraico e quindi allusione alle cose ultime e al destino.
Nel giorno della sua festa liturgica, si benedicono le stalle e si portano a benedire gli animali domestici; in alcuni paesi di origine celtica, s. Antonio assunse le funzioni della divinità della rinascita e della luce, LUG, il garante di nuova vita, a cui erano consacrati cinghiali e maiali, così s. Antonio venne rappresentato in varie opere d’arte con ai piedi un cinghiale.
Patrono di tutti gli addetti alla lavorazione del maiale, vivo o macellato; è anche il patrono di quanti lavorano con il fuoco, come i pompieri, perché guariva da quel fuoco metaforico che era l’herpes zoster, ma anche in base alla leggenda popolare che narra che s. Antonio si recò all’inferno, per contendere l’anima di alcuni morti al diavolo e mentre il suo maialino sgaiattolato dentro, creava scompiglio fra i demoni, lui accese col fuoco infernale il suo bastone a ‘tau’ e lo portò fuori insieme al maialino recuperato e lo donò all’umanità, accendendo una catasta di legna.
Per millenni e ancora oggi, si usa nei paesi accendere il giorno 17 gennaio, i cosiddetti “focarazzi” o “ceppi” o “falò di s. Antonio”, che avevano una funzione purificatrice e fecondatrice, come tutti i fuochi che segnavano il passaggio dall’inverno alla imminente primavera. Le ceneri poi raccolte nei bracieri casalinghi di una volta, servivano a riscaldare la casa e con apposita campana fatta con listelli di legni per asciugare i panni umidi.
È invocato contro tutte le malattie della pelle e contro gli incendi. Veneratissimo lungo i secoli, il suo nome è fra i più diffusi del cattolicesimo, anche se poi nella devozione onomastica è stato soppiantato dal XIII sec. dal grande omonimo santo taumaturgo di Padova.
Nell’Italia Meridionale per distinguerlo è chiamato “Sant’Antuono”.


Fonte: Santiebeati.it


PREGHIERA

Glorioso Sant'Antonio, esempio
di docilità alla voce di Dio che ti
chiamava alla vita perfetta per il
Regno dei cieli e ti ha costituito
maestro di spiritualità e di
preghiera, guidaci nel cammino della
fede e nella preghiera.
Insegna a noi, che ti onoriamo
come protettore, a seguire Gesù e a
vivere il nostro Battesimo, aprendo
il cuore alle necessità dei fratelli.
Tu che con Maria, gli Angeli e
i Santi, canti la lode perenne a Dio,
ottienici il dono di offrire la nostra
vita, come Gesù, per la salvezza dei
fratelli e di vivere sempre da veri
cristiani, consapevoli di dover dare
a tutti testimonianza della novità,
che Cristo Risorto ha offerto al mondo.
Egli vive e regna con te,
nell'unità dello Spirito Santo, per tutti
i secoli dei secoli.
Amen

lunedì 14 gennaio 2013

Inizio del Tempo Ordinario

 
La festa del Battesimo di Gesù segna la fine del tempo di Natale e l'inizio del c.d. Tempo Ordinario.
Analizziamone gli aspetti:
I) - La Parola di Dio nel corso dell'Anno Liturgico:
Nel corso di un anno non si riesce a leggere tutta la parola di Dio contenuta nei 73 libri che formano la Bibbia; per questo essa e distribuita in un ciclo di tre anni: anno A - anno B - anno C.
Ogni ciclo inizia con la prima domenica di Avvento.
Per la lettura del Vangelo, specialmente nelle domeniche del Tempo Ordinario, i brani sono scelti leggendo di seguito un Vangelo:
 
- anno A: viene letto il Vangelo di Matteo;
- anno B: viene letto il Vangelo di Marco e gli ultimi sei capitoli di Giovanni;
- anno C: viene letto il Vangelo di Luca (come l'anno in corso).
Il Vangelo di Giovanni viene letto nel Tempo di Natale, in Quaresima e nel Tempo di Pasqua. 
Nei giorni della settimana il Vangelo è unico, mentre la prima lettura segue un ciclo biennale secondo gli anni pari e gli anni dispari.
II) - Tempo Ordinario: Gesù, tu hai parole di vita eterna!
Il tempo Ordinario è costituito da 33 o 34 settimane; comincia il lunedì dopo la festa del Battesimo del Signore e si protrae fino al martedì prima della Quaresima. La prima parte può variare da 4 a 9 settimane. Riprende poi il lunedì dopo Pentecoste per terminare prima dei primi Vespri della prima domenica di Avvento.
III) - Perché si chiama Tempo Ordinario?
Esso è "ordinario" nel senso che celebra il mistero di Cristo nella sua globalità: lungo il ritmo delle settimane e delle domeniche veniamo a conoscenza dei suoi discorsi, delle parabole da lui raccontate, dei fatti e dei miracoli da lui compiuti, attraverso i quali Gesù ci presenta l'amore di Dio Padre per tutti gli uomini. Vivere e celebrare il mistero di Cristo nell'ordinario significa, dunque, accettare di vivere da discepoli nella fedeltà di ogni giorno, ascoltare e incontrare il Maestro nel quotidiano, riconoscere che Dio si china su di noi e ci salva nella concretezza della nostra esperienza personale. Gesù cammina accanto a ciascuno per guarirlo e conoscerlo.
 
IV) - Aspetti liturgici:
Il colore liturgico di questo tempo è il verde. Esso esprime la speranza, la giovinezza della Chiesa, la ripresa di un cammino nuovo e perseverante. Il Gloria si dice nelle solennità, nelle feste e in tutte le domeniche; il Credo si dice nelle solennità e in tutte le domeniche
V) - Valori da vivere:
Mantenere viva la fede in Gesù Cristo per mezzo della preghiera personale, familiare e comunitaria, la vita sacramentale (Confessione quindicinale, Santa Messa domenicale  e per chi può giornaliera cibandosi in essa della Santissima Eucarestia, Corpo e Sangue di Cristo) e le opere di carità, così da ravvivare i tre perni della vita cristiana: con Dio Padre, con il prossimo, sua manifestazione concreta e con se stessi come tempio dello Spirito Santo donatoci dal Gesù Cristo per la Vita Eterna.

lunedì 7 gennaio 2013

Il Purgatorio: il racconto del Servo di Dio Fra Daniele Natale

 
Sono un semplice fratello laico cappuccino. Ho svolto la mia vita facendo il lavoro che mi competeva: portinaio, sacrista, questuante, cuciniere. Spesso mi recavo, bisaccia in spalla, a chiedere l'elemosina di porta in porta. Ogni mattino facevo la spesa per il convento.
Mi conoscevano tutti e mi volevano bene. Ogni volta che compravo qualcosa mi facevano degli sconti. Quelle poche lire, anziché consegnarle al superiore, le conservavo per la corrispondenza, per le mie piccole necessità ed anche per aiutare dei militari che bussavano alla porta del convento.
Si era nell'immediato dopo guerra. Io ero a San Giovanni Rotondo, mio paese nativo, nel medesimo convento di Padre Pio. Da un po' di tempo avvertivo dei dolori all'apparato digerente. Mi sottoposi a visita medica ed il medico diagnosticò un male incurabile: tumore.
Con la morte nel cuore andai a raccontare tutto a Padre Pio, il quale, dopo avermi ascoltato, bruscamente mi disse: «Operati!». Rimasi confuso e reagii. Dissi: Padre, non ne vale la pena! Il medico non mi ha dato nessuna speranza. Ormai so di dover morire. «Non importa ciò che ti ha detto il medico: operati, ma a Roma nella tale clinica e dal tale professore». Il Padre mi disse queste cose con tale forza e con tanta sicurezza che io risposi: «Si, Padre, lo farò». Allora lui mi guardò con dolcezza e, commosso, aggiunse: «Non temere, io sarò sempre con te». La mattina dopo ero già in viaggio per Roma. Mentre ero seduto sul treno, avvertii a fianco a me una presenza misteriosa: era Padre Pio che manteneva la promessa di starmi vicino. Quando arrivai a Roma, seppi che la clinica era «Regina Elena»; il professore si chiamava Riccardo Moretti. Verso sera feci il mio ingresso in clinica. Sembrava che tutti mi aspettassero, come se qualcuno avesse annunciato il mio arrivo. Mi accolsero immediatamente. Subito dopo il consulto medico, il direttore sanitario venne a chiedermi il consenso per l'intervento previsto per il giorno dopo. Io apposi la firma richiesta. Alle ore 7.00 del mattino ero già in sala operatoria. Mi prepararono per l'intervento. Nonostante l'anestesia, rimasi sveglio e cosciente: mi raccomandai al Signore con le stesse parole che Lui rivolse al Padre prima di morire: «Padre, nelle tue mani raccomando il mio spirito». I medici cominciarono l'intervento ed io sentivo tutto ciò che dicevano; soffrivo dolori atroci, ma non mi lamentai, anzi ero contento di sopportare tanto dolore che offrivo a Gesù e mi accorgevo come tutte quelle sofferenze rendevano la mia anima sempre più pura dai miei peccati. Ad un certo punto mi addor­mentai. Quando ripresi coscienza mi dissero che ero stato tre giorni in coma prima di morire. Mi presentai dinanzi al trono di Dio. Vedevo Dio, ma non come giudice severo, bensì come Padre affet­tuoso e pieno di amore. Allora capii che il Signore aveva fatto tutto per amor mio, che si era preso cura di me dal primo all'ultimo istante della mia vita, amandomi come se io fossi l'unica creatura esistente su questa terra. Mi resi anche conto però che, non solo non avevo ricambiato questo immenso amor divino, ma l'avevo del tutto trascurato.
Fui condannato a due/tre ore di purgatorio. «Ma come?, mi chiesi, solo due/tre ore? E poi potrò rima­nere per sempre vicino a Dio eterno Amore?». Feci un salto di gioia e mi sentii come un figlio prediletto. La visione scomparve ed io mi ritrovai in purgatorio. Le due/tre ore di purgatorio mi erano state date so­prattutto per aver mancato al voto di povertà, per aver conservato per me quelle poche lire, come ho detto prima. Erano dolori terribili che non si sapeva da dove venissero, però si provavano intensamente. I sensi che più avevano offeso Dio in questo mondo: gli occhi, la lingua... provavano maggior dolore ed era una cosa da non credere perché laggiù nel purgatorio, uno si sente come se avesse il corpo e conosce/riconosce gli altri come avviene nel mondo. Intanto, non erano passati che pochi momenti di quelle pene e già mi sembrava che fosse un'eternità. Quello che più fa soffrire nel purgatorio non è tanto il fuoco, pur tanto intenso, ma quel sentirsi lontani da Dio, e quel che più addolora è di aver avuto tutti i mezzi a disposizione per la salvezza e di non averne saputo approfittare. Pensai allora di andare da un confratello del mio convento per chiedergli di pregare per me che ero nel purgatorio. Quel confratello rimase meravigliato perché sentiva la mia voce, ma non vedeva la mia persona, e chiese: «Dove sei? perché non ti vedo?». Io insistevo e, vedendo che non avevo altro mezzo per raggiungerlo, cercai di toccarlo; ma le mie braccia si incrociavano senza toccarsi. Solo allora mi resi conto di essere senza corpo. Mi accontentai di insistere perché pregasse molto per me e me ne andai. «Ma come? - dicevo a me stesso - non dovevano essere solo due/tre ore di purgatorio?... e sono tra­scorsi già trecento anni?». Almeno così mi sembrava. Ad un tratto mi apparve la Beata Vergine Maria e la scongiurai, la implorai dicendole: «O santissima vergine Maria, madre di Dio, ottienimi dal Signore la grazia di tornare sulla terra per vivere ed agire solo per amore di Dio!». Mi accorsi anche della presenza di Padre Pio e supplicai anche lui: «Per i tuoi atroci dolori, per le tue benedette piaghe, Padre Pio mio, prega tu per me Id­dio che mi liberi da queste fiamme e mi conceda di continuare il purgatorio sulla terra». Poi non vidi più nulla, ma mi resi conto che il Padre parlava alla Ma­donna. Dopo pochi istanti mi apparve di nuovo la Beata Vergine Maria: era la Madonna delle Grazie, ma senza Gesù Bambino. Ella chinò il capo e mi sorrise. In quel preciso momento ripresi possesso del mio cor­po, aprii gli occhi e stesi le braccia. Poi, con un movi­mento brusco, mi liberai del lenzuolo che mi copriva. Ero stato accontentato, avevo ricevuto la grazia! La Madonna mi aveva esaudito. Subito dopo, quelli che mi vegliavano e pregavano, spaventatissimi, si precipitarono fuori dalla sala per andare in cerca di infermieri e di dottori. In pochi minuti la clinica era in subbuglio. Credevano tutti che io fossi un fanta­sma e decisero di chiudere bene la porta e sparire per un certo timore degli spiriti.
Al mattino seguente, mi alzai molto presto e mi sedetti su di una poltrona. Malgrado la porta fosse accuratamente custodita, alcuni riuscirono ad entra­re e mi chiesero spiegazione dell'accaduto. Per tran­quillizzarli, dissi che stava arrivando il medico di guardia, il quale avrebbe raccontato l'accaduto. Di solito i medici non arrivavano prima delle ore dieci. Quella mattina erano ancora le ore sette e io dissi ai presenti: «Guardate: il medico sta arrivando, ora sta parcheggiando la macchina nel tal posto». Ma nessuno volle credermi. Ed io: «Ora sta attraversando la strada, porta la giacca sul braccio e si passa la mano sulla testa come fosse preoccupato, non so cosa avrà!...». Ma nessuno dava credito alle mie parole. Allora dissi: affinchè crediate che io non vi mento, vi confermo che ora il medico sta salendo in ascensore e sta per bussare alla porta. Avevo appena finito di parlare, che la porta si aprì ed il medico entrò con grande meraviglia di tutti i presenti. Con le lacrime agli occhi il dottore disse: «Sì, adesso credo: credo in Dio, credo nella Chiesa, credo in Padre Pio...».
Quel dottore, che prima non credeva o la cui fede era ad acqua di rose, confessò che quella notte non era riuscito a chiudere occhio pensando alla mia morte da lui accertata senza darsi spiegazione. Disse che malgrado il certificato di morte da lui stilato era tornato per rendersi conto di cosa era successo quel­la notte che tanti incubi gli aveva procurato, perché quel morto (che ero io) non era un morto come gli altri. In effetti, non si era sbagliato!

CONCLUSIONE

Dopo questa esperienza, fra Daniele visse vera­mente il purgatorio su questa terra purificandosi
attraverso malattie, sofferenze e dolori, e uniforman­dosi sempre e in tutto alla volontà di Dio. Ricordiamo solo alcuni interventi da lui subiti: prostata, colicisti, aneurisma della vena porta addominale con relativa protesi, tumore alla vescica, intervento dopo un ter­ribile incidente stradale nei pressi di Bologna, trala­sciando altri ricoveri e dolori non solo fisici, ma anche morali.
Alla sorella Felicetta che gli chiedeva come si sentisse in salute fra Daniele confidò: «Sorella mia, sono più di 40 anni che non ricordo cosa significhi star bene!».
Fra Daniele è morto il 6 luglio 1994.
Mentre la sua salma era composta nella cappella dell'Infermeria del convento dei Frati Cappuccini in San Giovanni Rotondo e si recitava il Santo Rosario in suf­fragio della sua anima benedetta, ad alcuni dei pre­senti parve che fra Daniele muovesse le labbra, come per rispondere al Rosario, alle Ave Maria. La voce si sparse in un baleno, tanto che il supe­riore padre Livio Di Matteo, per una certa serenità interiore, volle accertarsi che non si trattasse di morte apparente. Per questo fece venire dalla vicina Casa Sollievo della Sofferenza il dottor Nicola Silvestri Aiuto di Medicina legale ed il dottor Giuseppe Fasanella Assistente di Medicina legale i quali praticaro­no a fra Daniele l'elettrocardiogramma e gli misura­rono anche la temperatura, accertandone così definitivamente il decesso.
Ora fra Daniele gode certamente la visione beatifica di Dio e dal cielo sorride, benedice e protegge.


Nota: Tratto da: "fra Daniele Natale - racconta...le sue esperienze con Padre Pio" di padre Remigio Fiore

sabato 5 gennaio 2013

6 gennaio - Epifania del Signore Gesù. Cosa festeggiamo?

Cenni storici

Il termine epifania deriva dal greco,
epifaneia, che può avere molteplici significati: manifestazione, apparizione, venuta, presenza divina. Nella forma assume anche la valenza di "Natività di Cristo", oltre che di "Epifania" come noi la intendiamo.
Nel linguaggio contemporaneo Epifania sta ad indicare una festa cristiana che cade il 6 gennaio, cioè dodici giorni dopo il Natale. Con la Pasqua, l'Ascensione, la Pentecoste ed il Natale, quella dell'Epifania costituisce una delle massime solennità che la Chiesa celebra. Dai greci, questo termine veniva utilizzato per indicare l'azione o la manifestazione di una divinità (mediante miracoli, visioni, segni, ecc.).
Nel III secolo i cristiani iniziarono a commemorare, con il termine Epifania, le manifestazioni divine (come i miracoli, i segni, le visioni, ecc.) di Gesù. In particolare, tra queste manifestazioni si ricorda: l'adorazione da parte dei Re Magi, il battesimo di Gesù ed il primo miracolo avvenuto a Cana di Galilea (la trasformazione dell’acqua in vino). Ad oggi si intende, più genericamente, la prima manifestazione pubblica della divinità, con la visita dei Magi.
Secondo il Vangelo di Matteo (Mt 2,2) i Magi, guidati in Giudea da una stella, portarono in dono a Gesù bambino, riconosciuto come "Re dei Giudei", oro (omaggio alla sua regalità), incenso (omaggio alla sua divinità) e mirra (anticipazione della sua futura sofferenza redentrice) e lo adorarono.
In definitiva con l'Epifania si celebra la prima manifestazione della divinità di Gesù, vero Dio e vero Uomo, all'intera umanità: con la visita solenne, l'offerta di doni altamente significativi e l'adorazione dei magi, autorevoli esponenti di un popolo totalmente estraneo al mondo ebraico e mediterraneo
 
Significato cristologico

L’epifania, dunque, risulta essere un avvenimento di fondamentale importanza per la tradizione cristiana, in quanto fa risaltare la venuta del Salvatore incarnato in una vergine di Nazareth: Maria Santissima. Ancor più la nascita in un piccolo e sperduto
paesino del regno di Israele ci segnale come Dio, l’Onnipotente, con umiltà, e come una piccola fiammella accesa nella notte, sia venuto ad illuminare e risanare le difficoltà di ogni uomo. In questo conteso l’arrivo dei magi dall’Oriente a Betlemme per adorare il Messia, rappresenta il segno della manifestazione del Re universale ai popoli e a tutti gli uomini che cercano la verità; rappresenta il segno del bene fedele e tenace di Dio che mai viene meno al suo amore paterno verso i suoi figli; è ancora segno del coraggio dell’uomo, che desideroso di conoscere la Via, la Verità e la Vita, intraprende un lungo viaggio seguendo una stella, arrivando, da re che erano, ad inginocchiarsi innanzi ad un Bambino: Gesù Cristo nostro Signore.

Spunti di riflessione

In questo giorno cerchiamo di trovare il coraggio, testimoniatoci dai Re Magi, nel profondo del nostro cuore per riscoprire la vera dimensione di tale festa cristiana per non minimizzare, banalizzare e ridurre un momento di adorazione e ringraziamento a Dio Padre, solo ed esclusivamente, ad una corsa sfrenata all’acquisto di dolciumi e regali! Cogliamo l’occasione di questa Solennità per riscoprire il sacramento della Confessione affiancato a quello della Santissima Comunione nella celebrazione della Santa Messa nella quale ascoltando la Parola di Dio vivifichiamo la nostra esistenza con la luce dello Spirito Santo


Tu scendi dalle stelle

Tu scendi dalle stelle o Re del cielo,
e vieni in una grotta al freddo e al gelo,
e vieni in una grotta al freddo e al gelo.
O Bambino mio divino, io ti vedo qui a tremar.
O Dio beato!
Ah! Quanto ti costò l'avermi amato.
Ah! Quanto ti costò l'avermi amato.

A te che sei del mondo il Creatore,
mancano i panni e il fuoco, o mio Signore.
Mancano i panni e il fuoco, o mio Signore.
Caro eletto pargoletto, quanta questa povertà
più mi innamora, giacchè ti fece amor povero ancora.
Giacchè ti fece amor povero ancora.

Tu lasci del tuo Padre il divin seno,
per venire a tremar su questo fieno;
per venire a tremar su questo fieno.
Caro eletto del mio petto, dove amor ti trasportò!
O Gesù mio, perchè tanto patir, per amor mio

giovedì 3 gennaio 2013

3 Gennaio - Santissimo Nome di Gesù: adorazione e riparazione


Dall'opera sul «Vangelo eterno» di san Bernardino da Siena
(Sermone 49, art. 1 - Opera Omnia, IV, pp. 495 ss). 
 
Il Nome santissimo dagli antichi Patriarchi e Padri fu desiderato, con tanta ansietà aspettato, con tanti sospiri, con tante lagrime invocato, ma nel tempo della grazia misericordiosamente è stato donato. Scompaia il nome dell'umana sapienza, non si senta nome della vendetta, rimanga il nome della giustizia. Donaci il nome della misericordia, risuoni il nome di Gesù nelle mie orecchie, poiché allora veramente la tua voce è dolce e grazioso il tuo volto.
 
Grande fondamento della fede pertanto è il Nome di Gesù, per il quale siamo fatti figli di Dio. La fede della religione cattolica consiste nella conoscenza e nella luce di Gesù Cristo; che è illuminazione dell’uomo, porta della vita, fondamento della salute eterna. Se qualcuno non lo ha o lo ha abbandonato, è come se camminasse senza luce nelle tenebre e per luoghi pericolosi ad occhi chiusi; e sebbene splenda il lume della ragione, segue una guida cieca quando segue il proprio intelletto per capire i segreti celesti, come colui che intraprenda la costruzione della casa senza curarsi del fondamento, oppure, non avendo costruita la porta, cerca poi di entrare per il tetto.
Questo fondamento è Gesù, porta e luce che, mostrandosi agli erranti, indicò a tutti la luce della fede per la quale è possibile ricercare il Dio sconosciuto, e ricercandolo credere, e credendo trovarlo. Questo fondamento sostiene la Chiesa fondata nel Nome di Gesù.
 
Il Nome di Gesù è luce ai predicatori, poiché fa luminosamente risplendere, annunciare e udire la sua parola. Da dove credi che provenga tanta improvvisa e fervida luce di fede in tutta la terra, se non dalla predicazione del Nome di Gesù? Forse che Dio non ci ha chiamati all'ammirabile sua luce attraverso la luce e la dolcezza di questo Nome? A coloro che sono illuminati e che vedono in questa luce, giustamente l'Apostolo dice: «Una volta eravate tenebre, ora siete luce nel Signore: camminate dunque quali figli della luce».
O nome glorioso, o nome grazioso, o nome amoroso e virtuoso! Per mezzo tuo vengono perdonate le colpe, per mezzo tuo vengono sconfitti i nemici, per te i malati vengono liberati, per te coloro che soffrono sono irrobustiti e gioiscono! Tu onore dei credenti, maestro dei predicatori, forza di coloro che operano, tu sostegno dei deboli! I desideri si accendono per il tuo calore e ardore di fuoco, si inebriano le anime contemplative e per te le anime trionfanti sono glorificate nel cielo: con le quali, o dolcissimo Gesù, per questo tuo santissimo Nome, fa' che possiamo anche noi regnare. Amen!
  

CORONCINA RIPARATRICE AL SANTISSIMO NOME DI GESU’
Gesù rivelò alla Serva di Dio suor Saint-Pierre, carmelitana di Tours (1843), l’Apostola della Riparazione: “Il mio nome è da tutti bestemmiato: gli stessi fanciulli bestemmiano e l’orribile peccato ferisce apertamente il mio Cuore. Il peccatore con la bestemmia maledice Dio, lo sfida apertamente, annienta la Redenzione, pronuncia da sé la propria condanna. La bestemmia è una freccia avvelenata che mi penetra nel Cuore. Io ti darò una freccia d’oro per cicatrizzarmi la ferita dei peccatori, ed è questa: Sempre sia lodato, benedetto, amato, adorato, glorificato, il Santissimo, il Sacratissimo , l’adoratissimo – eppure incomprensibile – Nome di Dio in cielo, in terra o negli inferi, da tutte le creature uscite dalle mani di Dio. Per il Sacro Cuore di nostro Signore Gesù Cristo nel Santissimo Sacramento dell’altare. Amen. Ogni volta che ripeterai questa formula ferirai il mio Cuore d’amore. Tu non puoi comprendere la malizia e l’orrore della bestemmia. Se la mia Giustizia non fosse trattenuta dalla misericordia, schiaccerebbe il colpevole verso il quale le stesse creature inanimate si vendicherebbero, ma io ho l’eternità per punirlo! Oh, se sapessi quale grado di gloria ti darà il Cielo dicendo una volta sola: O ammirabile Nome di Dio! - in spirito di riparazione per le bestemmie!”

CORONCINA
 
Sui grani grandi della Corona del santo Rosario recitare : il Gloria, e la preghiera della “freccia d’oro” : “Sempre sia lodato, benedetto, amato , adorato, glorificato il Santissimo, il Sacratissimo, l’adoratissimo – eppure incomprensibile – Nome di Dio in cielo, in terra o negli inferi, da tutte le creature uscite dalle mani di Dio. Per il Sacro Cuore di nostro Signore Gesù Cristo nel Santissimo Sacramento dell’altare. Amen”.
Sui grani piccoli si dice per 10 volte: “Cuore Divino di Gesù, converti i peccatori, salva i moribondi, libera le Anime sante del purgatorio”.
Concludere con:

Gloria
Salve Regina
Eterno riposo